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Il mio interesse per la fotografia nasce in seguito a uno studio storico volto a rintracciare quegli autori che intesero il mezzo una nuova e specifica espressione artistica. Questa ricerca mi ha permesso di scoprire la “messa in scena” che, fin dall’Ottocento, era stata una pratica molto utilizzata dai fotografia, come dall’inglese Julia Margaret Cameron.

Tutt’oggi la costruzione di enormi set finalizzati a produrre un’unica immagine fotografica è tra le pratiche più adottate da Jeff Wall, James Casabere o l’italiano Paolo Ventura. Le loro opere, insieme ai tableaux vivants ottocenteschi, mi hanno spinto a sperimentare il genere della staged photography. La possibilità di organizzare lo spazio per creare un’immagine secondo un’idea era l’aspetto che mi affascinava di queste fotografie, descritte da Michel Poivert, come «forme dell’esperienza immaginativa». L’apertura dell’immaginazione, combinandosi con la mia personale sensibilità per i materiali, maturata al corso di Scultura in accademia, ha dato forma a una serie di artifici fotografici, pur non interessandomi affrontare una lettura sociologica del quotidiano, né un’analisi delle teorie teatrali e della gestualità, comuni a molti autori contemporanei. Obiettivo dei miei lavori è quello di creare nuovi spazi, tanto irreali, quanto simultaneamente reali. Muovendomi nell’ambiente casalingo vado infatti a cercare quello che Walter Siti definisce un «particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale».

Nei primi scatti, un’attrazione primordiale per gli spazi immensi si rivela essere il vero motore che stimola la mia immaginazione; quasi per caso, buttando del sale grosso su un cartoncino nero, mi appare uno spazio cosmico, dove i granelli di sale diventano asteroidi fluttuanti nell’universo.
La dialessi tra particolare e universale è sempre stata al cuore della mia ricerca. Fin dai miei primi lavori scultorei, era sorto in me un interesse per lo spazio della casa che, come la intendeva Gaston Bachelard, vive dell’esperienza del soggetto, della sua immaginazione e dei suoi ricordi.
In questa ottica, dentro le irregolarità di un blocco di marmo, avevo scolpito spazi architettonici con accenni all’ambiente abitato. Dettagli, solitari e delicati nel biancore del marmo, come le parti più limpide della memoria che deforma la percezione di ogni luogo affettivo.

Dopo le sperimentazioni di scultura, il tema della percezione e della memoria è proseguito in un lavoro fotografico di tipo narrativo, sviluppatosi parallelamente alle “messe in scena” di paesaggio presentate in mostra. La serie “Racconti brevi” è costituita così da cinque storie fotografiche realizzate nell’arco di due anni, tra le città di Milano, Lione e Parigi. La visita ad un’anziana pittrice, una base militare che appare nella nebbia e una bambina che gioca ad allineare le biglie sono gli eventi dai quali hanno iniziato a delinearsi le prime immagini di questi racconti. Come per i paesaggi, nei miei “Racconti brevi” gli avvenimenti centrali sono quelli che dovrebbero essere classificati come secondari, se non di sfondo, ma che divengono essenziali in quanto più fedeli all’espressione di un sentimento dominante.

«Si può fare un lm nel quale tutto sia determinato dallo scorcio dello sguardo dell’uomo, dal suo modo di vedere la vita». A. Tarkovskij

 

Elena Maria Canavese

ELENA MARIA CANAVESE

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